RIFORMA, SCOMMESSA PERSA. PENALIZZATE LE PICCOLE ASSOCIAZIONI - parte 2
28 Luglio

RIFORMA, SCOMMESSA PERSA. PENALIZZATE LE PICCOLE ASSOCIAZIONI - parte 2

RIFORMA, SCOMMESSA PERSA. PENALIZZATE LE PICCOLE ASSOCIAZIONI - parte 2

Continua la pubblicazione di interventi di eminenti esperti e docenti universitari, che ringraziamo per il permesso concessoci.
Parimenti ringraziamo www.retisolidali.it e https://volontariatolazio.it che hanno pubblicato tali interventi.
Da notare quanto questo articolo sia, per usare le parole di uno dei tre esperti, "drammaticamente sempre più attuale".

Eccovi l'intervento del Prof. Luca Fazzi, dell'Università di Trento.

 

I DUE PIANI DELLA RIFORMA. 
Concorde con le linee generali della Riforma, ma altrettanto critico sulle applicazioni reali è Luca Fazzi, ordinario e direttore del master in Gestione dell’impresa sociale dell’Università di Trento.
Chiarisce perplessità e dubbi sul reale impatto che avrà la nuova Magna Charta del Terzo settore soprattutto sul welfare dei prossimi anni. «La nuova normativa», spiega, «si può descrivere su due piani, uno visibile e uno nascosto. Quello visibile sono le norme pubblicate e tutto il dibattito che ci sta dietro. Quello nascosto riguarda come si è arrivati a questa Riforma e quali sono stati gli interessi in campo».
Tra gli aspetti positivi, evidenzia, «intravedo la volontà di dare spazio a questo settore come soggetto autonomo, di farlo uscire dagli interstizi del sistema per portarlo in superficie e dargli legittimità. Anche se, gli ultimi vent’anni, sono stati anni di leggi e norme che continuamente hanno posto al centro le organizzazioni di Terzo settore».
Poi Fazzi veste l’abito del professore e fa notare che «ogni concetto, sociologicamente parlando, quando è discusso e messo al centro del dibattito pubblico acquisisce una sua legittimità, altrimenti rimane marginale. Ma i dibattiti pubblici sono sempre problematici perché andrebbero analizzati rispetto agli interessi o alla posta in gioco.
Rispetto a questo processo la mia impressione è che la maggior parte della discussione sulla Riforma sia stata molto ambigua. Se ne decantano i meriti, ma si omettono le dinamiche che hanno portato ad assumere certe posizioni».

UNA COMPETIZIONE SLEALE. 
Un primo passaggio riguarda il contesto in cui si colloca questa nuova legislazione.
«Scorrendo gli articoli», dice Fazzi, «la prima osservazione è che non si capisce quale modello di welfare si voglia perseguire o meglio non viene dichiarato. Il secondo riguarda le negoziazioni che hanno portato al testo finale. Infatti, se osserviamo una serie di misure, troviamo delle contraddizioni inspiegabili. Per esempio, per quanto riguarda il volontariato, la legge introduce una forte discontinuità rispetto al passato: le associazioni potranno avere come iscritti fino al 50% dei dipendenti. È quanto prescrive l’articolo 36 del Codice per le associazioni di promozione sociale “In ogni caso, il numero dei lavoratori impiegati nell’attività non può essere superiore al cinquanta per cento del numero dei volontari o al cinque per cento del numero degli associati”. Tradotto significa che sarà possibile avere un’associazione con dieci iscritti di cui cinque volontari, che magari svolgono attività per un’ora a settimana, e cinque dipendenti invece che lavorano per 36 ore alla settimana.
Di fronte a questo caso la domanda sorge spontanea: dov’è andato a finire lo spirito volontaristico? E, soprattutto, uno dei grossi interrogativi che pone questa misura, è che le leggi poi vanno applicate alla realtà.
Ma la realtà, oggi, è quella di un sistema di welfare dei servizi fortemente caratterizzato da tagli e dove è presente una competizione marcata all’interno del Terzo settore. Quindi, con questa norma, quello che rischia di accadere è di favorire una competizione scorretta fra associazioni di volontariato “spurie” e altri soggetti di Terzo settore. Ma siccome la legge afferma che si possono fare convenzioni solo a condizioni migliorative rispetto a quelle del mercato, è evidente che questa norma presta il fianco ad un uso strumentale da parte delle pubbliche amministrazioni».

Prof. Luca Fazzi, Università di Trento

LA RETORICA E IL CORPORATIVISMO. 
Fazzi snocciola tutte le contraddizioni contenute nel testo. «Il percorso seguito da questa legge è stato caratterizzato da due spinte: la prima è una retorica che voleva il Terzo settore come attore e generatore di occupazione; la seconda è il corporativismo. Infatti il mondo del non profit nel dibattito su questa legge si è comportato esaltando le dimensioni corporative delle sue componenti. Per esempio, la norma che citavo in precedenza sui volontari, è stata voluta da alcune parti che, in quel momento, avevano più voce e più spazio».
Altro esempio: «Il caso delle cooperative che, sempre secondo la norma, possono occuparsi solo di alcuni settori, mentre le nuove imprese sociali di altri. Ma perché una cooperativa sociale non potrà occuparsi di turismo o di cultura mentre un’impresa sociale sì ?».
Il sociologo procede poi nella sua analisi per far emergere quello che definisce il lato non visibile: «La discussione sembra interamente centrata sul fatto che finalmente c’è una legge che lascerà libero il Terzo settore di muoversi in autonomia e la finanza lo aiuterà a fare questo. Ma tutto ciò non è affatto vero, perché i motivi che spingono la finanza a entrare nel sociale sono esclusivamente interessi di tipo profittuale. Non a caso una serie di soggetti privati legati alla Social Impact Investment Task Force ha prodotto il rapporto “La finanza che include”: un’analisi articolata dell’ecosistema dell’impact investing in Italia».
«Questo rapporto», continua Fazzi, «ipotizza che nel nostro Paese dal 2014 al 2020 il gap tra fabbisogno sociale e spesa pubblica sarà intorno ai 150 miliardi di euro. Una cifra appetibile per il mondo degli investimenti. Sempre nel documento troviamo l’indicazione di promuovere, presso i governi, i fondi pensione e i piani di risparmio a lungo termine e tutta un’altra serie di misure a sostegno della defiscalizzazione delle imprese sociali. A onor del vero, però, va detto che parte di queste spinte sono state arginate nel decreto sull’impresa sociale, che ha imposto alcuni limiti sulla redistribuzione di utili».
Il sociologo poi spiega quali potrebbero essere i limiti all’imprenditoria sociale: «È il tentativo di creare un sistema dove scomparirà lo scenario tra volontariato e non profit che, in accordo con le politiche pubbliche, creano un’offerta. Per virare verso un “nuovo” soggetto imprenditoriale, definito Terzo settore, che userà il più possibile la leva della finanza privata, anche se non si capisce come funzionerà e per rispondere a quali obiettivi. Tutto questo ha dei risvolti non indifferenti. È vero che l’impresa profit può anche essere benevola e lo dimostrano i numerosi progetti fatti in partnership con soggetti non profit in Italia. Ma è altrettanto vero che, con la Riforma, l’impresa sociale, che opera su certi settori, potrà avere delle detrazioni sui capitali di rischio. Mentre le cooperative sociali rischiano di rimanere operative prevalentemente nei vecchi comparti, quelli dove il pubblico sta riducendo il proprio intervento. Infine il volontariato viene alterato e si introducono degli elementi dove, in un clima di restrizione del welfare, il rischio è che diventi una “lunga manus” di interventi strumentali».

IL PROFIT INGHIOTTE IL NON PROFIT. 
Ad aggiungere benzina sul fuoco sono i numerosi vincoli inseriti lungo tutto il Codice. «Siamo in presenza poi di un’architettura di controlli che in parte è “borbonica” e in parte rischia di essere poco efficace. “Borbonica”, perché carica le piccole organizzazioni di adempimenti assurdi. Risibile, perché per controllare le organizzazioni con un bilancio superiore a un milione di euro è previsto un bilancio d’impatto o bilancio sociale. Ma i bilanci sociali sono uno strumento risibile per controllare le imprese».

Per concludere Fazzi fa una sintesi della sua lettura della riforma: «È una legge che difetta di un quadro di riferimento delle politiche ed è infarcita di elementi di contraddittorietà che rischiano di far venir meno anche gli aspetti positivi che vi sono contenuti. È chiaro, e tutti lo sappiamo, che il welfare non potrà più essere finanziato solo dalla mano pubblica. Così come è fondamentale che il Terzo settore abbia gambe per poter camminare nella comunità e nella finanza.
Ma un conto è creare un sistema a più pilastri, dove le governance rimangono in mano al mondo chiamiamolo solidaristico, un altro invece è creare una serie di soggetti ibridi dove il privato rischia di assorbire all’interno delle sue logiche il Terzo settore. Un sistema di policy basato sui principi universalistici – chi ha bisogno riceve – non può avere una base privatistica. Altrimenti somiglierebbe troppo al sistema statunitense, dove un terzo dei cittadini sono poveri. Ed è una diseguaglianza che fa paura.
Qui abbiamo un problema serio che è quello di porci la domanda dove va il welfare. Perché, se si fa una legge sul Terzo settore, si dovrebbe dire chiaramente in che direzione procede il welfare. Poi bisogna fare in modo che tutti i vantaggi della finanza sociale siano aperti a tutti i soggetti. Perché, per esempio, le cooperative nate 36 mesi prima della legge non possono usufruire dei capitali di rischio, visto che parliamo di 14 mila enti che gestiscono la gran parte del welfare sociale nazionale? Se prendiamo in esame i social bond dobbiamo sapere che i primi a fare progetti di finanziamento sui risultati sono stati nel 2008 la banca di affari JP Morgan e la Rockefeller Foundation. Ma la valutazione d’impatto serve ai grandi gruppi finanziari per avere indicatori omogenei, mentre l’impatto dovrebbe essere la valutazione delle politiche e non è mai stato fatto. Ma se la valutazione d’impatto è fatta per attirare investitori deve essere necessariamente positiva, appetibile. Quindi tutti quei progetti che riguardano soggetti molto fragili avranno pochi margini di risultato. È evidente che un investitore sceglierà un progetto in cui i margini di obiettivo sono alti. Quindi la valutazione d’impatto muove gli investitori interessati al guadagno, ma quel guadagno da dove arriva? Giunge come al solito dalle casse pubbliche. Di conseguenza, perché un privato dovrebbe guadagnare dal pubblico? Questo non è chiaro. A meno che non siano le fondazioni a farlo. Poi ci sono progetti sui cui fare valutazione d’impatto è impossibile, in quanto i costi e le variabili in campo sono tali e tante da non portare a nessun risultato. Per esempio, nel caso di un progetto di prevenzione per minori a rischio quando si potranno vedere dei risultati? Dopo uno, due o dieci anni. Dunque, alcuni risultati si possono vedere, mentre altri no, oppure il risultato è discorde rispetto agli interessi degli attori in gioco. Con questo non voglio affermare che il Terzo settore non debba misurare le sue azioni, o non debba liberarsi dalla stretta del pubblico, anzi. Voglio solo dire che la valutazione dovrebbe farla il soggetto pubblico o un soggetto terzo e non gli interessi dei privati. La valutazione dovrebbe essere generale e sulle politiche, non sui singoli progetti».

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Luca Fazzi, laureato in sociologia, ha studiato a Trento, Regensburg e Friburgo.
Ha insegnato presso la Facoltà di Economia di Trento e è attualmente professore ordinario al dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento e docente incaricato alla Facoltà di Educazione della Libera Università di Bolzano.
Consulente di enti locali e aziende si occupa di analisi delle politiche sociali urbane, di innovazione sociale, di partecipazione e società civile.
E’ stato autore del primo piano di qualità della vita del comune di Bolzano.
Collabora con diverse riviste e quotidiani internazionali e nazionali tra cui IlFattoquotidiano.it